L'altro... Croce e Delizia

01.10.2018

"Hey non permettere mai a nessuno di dirti che non sai fare qualcosa. Neanche a me. Ok? Se hai un sogno tu lo devi proteggere. Quando le persone non sanno fare qualcosa lo dicono a te che non la sai fare. Se vuoi qualcosa vai e inseguila. Punto."

(Muccino. La ricerca della felicità)

Ogni volta che mi imbatto in questa citazione mi verrebbe da dire a Muccino o a Will Smith... "la fai facile tu!"

Questa citazione rimanda esattamente il senso di quanto noi tutti, molto spesso, vorremmo liberarci dalle idee che pensiamo gli altri abbiano di noi, del nostro essere, delle nostre competenze e capacità, in definitiva della nostra persona, vorremmo liberarcene perché, nonostante la nostra mentre ci inviti a considerare la nostra autopercezione in primis, è esperienza abbastanza comune che spesso lasciamo che siano gli "altri" a stabilire chi siamo, quali capacità abbiamo, i nostri limiti e le nostre potenzialità. Che sia la famiglia, un partner o il nostro capo, troppo spesso la nostra bussola la spostiamo fuori di noi e prima di affrontare un compito, una situazione nuova o di fare un progetto qualsiasi, non consideriamo valida e finita la nostra autopercezione e finiamo spesso per considerare le idee dell'altro su di noi e sulle nostre prospettive qualcosa di fondante l'azione, e molto spesso anche la non azione. La cosa simpatica è che spesso l'altro non necessitiamo nemmeno di interrogarlo direttamente, ma, soprattutto se si tratta di un altro significativo, ci basta pensare cosa ne penserebbe e questo avrà una enorme influenza sulla nostra autopercezione. Insomma l'altro ha una enorme influenza su di noi, anche se fossimo eremiti ritirati su una montagna, l'immagine stessa di un altro che abbiamo interiorizzato ci guida e ci influenza e si confonde con la nostra autopercezione lasciandoci spesso il dubbio che anche quando stiamo decidendo noi, in realtà, quella decisione possa essere la conseguenza dell'approvazione o disapprovazione di un "altro" che abbiamo interiorizzato. Questo stato di cose, rende la citazione del film di Muccino, un invito a perseguire la felicità eliminando l'altro e la sua influenza su di noi, ma al contempo è una pretesa utopica che si può raggiungere realmente, solo a momenti, e che poi l'attimo dopo possiamo perdere, questo perché è la nostra stessa natura di esseri umani che determina il fatto che l'altro sia una croce e delizia da cui non possiamo purtroppo (o per fortuna) prescindere. E' la nostra stessa natura di esseri umani che determina il fatto che, sia che siamo soli o che siamo in compagnia, l'altro abbia una influenza perenne e costante sulla nostra vita, non solo in termini di decisionalità, ma, in definitiva, in termini di autopercezione. Insomma, si fa presto a dire "non considerare l'altro nella tua autovalutazione" se da più parti, dall'etologia, passando per la biologia epigenetica, fino alla psicologia, viene sottolineato che l'individuo, in sostanza, si fonda sull'altro, sulla sua esistenza, sulla sua disponibilità, sui significati che ci rimanda.

Per necessità di sopravvivenza la mente umana ha un carattere sociale, e questo, ci piaccia o no, determina il fatto che la nostra stessa identità abbia una matrice sociale. Mi spiego meglio. L'essere umano, rispetto a tutti gli altri mammiferi, nasce con un cervello non del tutto formato. Quando veniamo al mondo siamo formati in tutti gli apparati organici tranne che per il cervello. Il cucciolo d'uomo è l'unico animale che per rendersi autonomo rispetto ai propri genitori ha necessità di passare molto tempo, e non solo pochi giorni o pochi mesi, come avviene nelle altre specie, a beneficiare delle cure e del sostegno degli "adulti". Un bambino abbandonato a se stesso, non solo nei primi giorni ma nei primi anni di vita, non sopravvive, non saprebbe come nutrirsi, non potrebbe attivarsi per cercare il nutrimento e così via; e queste sono evidenze sotto gli occhi di tutti. Ovviamente non nasciamo come delle entità passive, la primaria pulsione sociale ci permette, con il nostro limitato sistema di comunicazione, legato soprattutto al pianto e ai segnali motori scoordinati e così via, di procacciarci quella vicinanza di cui necessitiamo per la sopravvivenza. Ancora molto lontani dallo strutturare una consapevolezza di noi e dei nostri bisogni, siamo programmati ad emettere segnali che attraggano l'adulto che si prende cura di noi e ci garantisce la sopravvivenza. Questo in termini biologici, ma come si passa da questo all'influenza perenne che, non tanto la presenza dell'altro, quanto il significato che egli ha e da di noi, ci influenza non solo per i primi anni di vita, ma ci accompagna spesso per sempre facendo sentire molti di noi addirittura prigionieri?

Un piccolo esempio tratto dal film inside out: Il film inizia nel momento della nascita di Riley (la protagonista), nel momento stesso in cui la bambina sta aprendo gli occhi per la prima volta e approccia tutti i muscoli del viso, ancora non coordinati, a questa attività, fa una serie di movimenti facciali con le guance, gli occhi e con la bocca, e il padre dice "non è un fagottino di gioia?". Chi ha visto il film può ben capire che tutta la trama si snoda proprio sul fatto che "gioia" assume il ruolo di leader nella gestione delle emozioni e che ad un certo punto è proprio la sua preponderanza che crea difficoltà, perché non accetta che al comando successivamente, e in coerenza con le vicende esterne che capitano alla bambina, passi tristezza. Sicuramente ad un primo sguardo queste evenienze possiamo vederle come una scelta registica che sottolinea quanto l'infanzia sia l'età della gioia, ma in realtà, soprattutto chi ha studiato psicologia sa bene che questa è una idealizzazione di una fase della vita che è invece attraversata da tensioni e prove e crisi che ognuno di noi deve affrontare. Insomma, l'infanzia non è per niente così semplice come ci piace credere e ricordare, allora mi sono sempre chiesta, se in realtà questo primissimo frame del film, che occorre nei primi 20 secondi, invece non stia ad evidenziare altro, ovvero; che mentre sono in relazione con noi, i nostri genitori, le nostre figure di accudimento, non ci passano solo nutrimento e sostegno e calore, ma ci passano anche significati ed emozioni che ci offrono una chiave di lettura non solo del mondo esterno, ma soprattutto di noi e del nostro mondo interno. I movimenti del viso che Riley compie per aprire gli occhi, non sono visti come la tensione muscolare che la bambina mette in atto per aprire le palpebre, ma vengono visti come buffi movimenti, accostabili al sorriso, che inducono il padre della bambina ad attribuire a quei movimenti un significato emotivo puntato alla gioia. In qualche modo il padre dice a Riley che è gioiosa e Riley si appropria di questo significato, non con autoconsapevolezza, ma di fatto, tutto il suo sistema emotivo si imposta alla gioia. Vedendo questi primi attimi del film ci si può chiedere se Riley è gioiosa o ha registrato che bisogna esserlo.

Questo è esattamente quello che avviene per tutti noi. Molti autori, da Lacann, passando per Winnicott, fino a Bowlby, sottolineano come, prima ancora di una geminale autoconsapevolezza, in realtà veniamo tutti al mondo con una parziale autopercezione di apparati, divisi e non integrati, che prendono forma ed unità, ed anche significato, solo ed esclusivamente attraverso la relazione con l'altro. Dice Lacan che addirittura l'atto di riconoscersi allo specchio, che sembra si manifesti non prima dei sei mesi e la reazione di giubilo che ne consegue, in realtà, passi prima dall'identificazione con l'altro. Il bambino, che solitamente allo specchio si trova in braccio alle figure di riferimento, prima di tutto riconosce nello specchio il doppio dell'altro significativo che è abituato a vedere quando è tenuto, e solo successivamente tramite l'identificazione, non con se stesso, ma con questo "altro", può arrivare a riconoscere se stesso allo specchio. Questa teoria di Lacan è stata confermata dagli studi di Postel che studiando i processi inversi di deterioramento cerebrale. Postel ha osservato che prima della totale assenza del riconoscimento del soggetto allo specchio, vi è una fase in cui il soggetto può riconoscersi allo specchio solo dopo aver riconosciuto la persona significativa che gli è affianco. Insomma, da più parti, la teoria ha evidenziato come la relazione con l'altro all'inizio della vita non ci garantisce solo soddisfacimento di bisogni primari e sopravvivenza, ma soprattutto ci fornisce informazioni e significati su di noi; significati così primitivi e preverbali che sostanzialmente ci accompagnano per tutto l'arco della vita e sui quali il senso stesso di noi è fondato e scritto in maniera quasi indelebile, in una maniera che per molti versi ci condiziona. Questa è la fase definita, da autori come la Mhaler, di indifferenziazione primaria, per cui l'esterno da cui il bambino è attratto, in realtà, è percepito come un interno da cui, man mano, il bambino deve differenziarsi, emergere; una differenziazione che però non è mai totale e definitiva perché su questo esterno, percepito come interno, si fonda l'io stesso. Come e perché questo nucleo primario dell'io si fondi sull'altro ce lo spiega Winnicott che ci dice che, prima ancora della fase dello specchio, il bambino trae informazioni su se stesso dal viso della madre, dallo sguardo della madre su di lui. Insomma, in relazione con la madre, o comunque con le figure di accudimento, il bambino non vede solo il volto della madre ma l'atteggiamento emotivo che essa ha e da questo atteggiamento emotivo il bambino trae informazioni su di sé. "Non è un fagottino pieno di gioia?" dice il padre di Riley, e il mondo interno di Riley si organizza totalmente intorno alla gioia. E questo è il caso positivo. In caso di madri depresse o ambivalenti o che si approcciano al bambino con nervosismo o con fastidio, cosa percepirà di se stesso il bambino? Nel caso di Riley la bambina è stata accostata a sentimenti e a parole di gioia, ma nel caso di bambini che piangono un poco di più e che magari vengono definiti "terribili"? cosa accadrà?

Secondo Lichtenstein la questione è ancora più profonda perché non si sostanzia solo di vista e udito ma si fonda anche, e soprattutto, sull'investimento libidico che la madre opera sul bambino. Lichtenstein comprende quindi tutta la gamma dei sensi: il tatto, l'olfatto, la qualità della prossimità fisica e così via, come elementi che passano al bambino il significato stesso che il bambino ha per la madre e che si fonda sul suo desiderio inconscio. Sarà proprio questo desiderio inconscio della madre riguardo al proprio bambino che costituirà il suo modo particolare e unico di essere un essere umano. Figli non desiderati o avuti per dovere verso lo scorrere del tempo, figli avuti troppo presto o successivi ad aborti, figli nati in periodi di lutto per la madre o per la coppia genitoriale, saranno inevitabilmente fondati anche su questi elementi in una maniera così profonda da non poterne conservare ricordo e da non essere elaborabili totalmente attraverso i successivi elementi cognitivi. Potrebbero sembrare tutte ciance parascientifiche, ed invece da più parti, la biologia e la neurologia stessa hanno evidenziato come, di fatto, la vicinanza con l'altro significativo imposti il cervello ancora in formazione di un neonato e lo fondi. Siegel ha evidenziato come l'attaccamento alle figure primarie di cura, influenza lo sviluppo stesso dei circuiti neuronali; per cui, ciò che accade nelle prime relazioni all'inizio della vita, ha effetto su tutte le attività cerebrali che mediano e danno vita ai processi mentali superiori: pensiero, memoria, linguaggio e così via.

Sulle prime relazioni della nostra vita, non solo in termini pratici, ma soprattutto in termini di significati, si fondano il senso del sé, il pensiero, e il modo di vedere ed intendere il mondo esterno e le relazioni. Il nostro posto nel mondo, come ci muoveremo e come lo interpreteremo, come ci percepiremo via via in relazione ad esso. E' il precipitato di queste prime relazioni che determinano quelli che Bowlby definiva stili di attaccamento e modelli operativi interni. Senza andare a fondo delle varie possibilità e sfaccettature evidenziate da Bowlby e da chi ha ampliato e definito successivamente la sua teoria, ci interessa evidenziare come Bowlby e altri sottilineino che dalle relazioni primarie, e dal senso di sicurezza o di insicurezza che ci hanno fornito internamente, noi svilupperemo delle mappe di significazione di noi stessi, di noi stessi in relazione al mondo e del mondo in relazione con noi. Queste mappe (Modelli operativi interni) costituiscono dei codici, dei "copioni", che percepiamo come talmente nostri da non riconoscere la matrice primaria e preverbale da cui derivano. Sono questi codici che sostanziano il nostro nucleo fondante e guidano i nostri sentimenti, le nostre percezioni, le nostre aspettative, le nostre valutazioni su noi stessi, sul mondo che ci circonda e sulle aspettative riguardanti noi stessi nelle relazioni e le relazioni stesse.

Insomma, si fa presto a dire: parti dalla tua autovalutazione, quando la nostra stessa autovalutazione non ci appartiene totalmente, quando il significato stesso che noi diamo a noi stessi è costruito su ciò che l'esterno ci ha "detto" di noi in un momento in cui non avevamo, giocoforza, gli strumenti per poter risignificare in modo diverso, selezionare, accettare o rigettare ciò che di noi ci veniva "raccontato".

Anche quando prendiamo una decisione che ci appare totalmente, espressione del nostro sé e libera da influenze esterne, in realtà, quella decisione si fonda su un bagaglio ed un nucleo che non è mai solo nostro, perché nella matrice della parola "Io" è inscritto tutto ciò che inizialmente ci è stato passato di noi. L'altro è una dimensione che non ha bisogno di esistere fuori per essere presente.

Questo non deve farci sentire spacciati.

La pratica professionale psicologica ci insegna ampiamente che ci sono cose che non possiamo cambiare, come la nostra storia, la famiglia di origine, ciò che abbiamo vissuto, la nostra età e così via, ma ci dice anche che c'è un margine di lavoro molto ampio che ci permette almeno di metterci in opera per poter sfrondare i significati percepiti di noi stessi e tramite la narrazione e la ricostruzione di esperienze passate è possibile in buona parte riscrivere almeno discernendo, per lo più, ciò che siamo da ciò che ci hanno insegnato a credere di noi.

Ogni volta che un paziente singolo entra nella stanza, noi psicologi, sappiamo bene che di fronte a noi è seduto il paziente insieme a sua madre, a suo padre, a tutte le relazioni e le esperienze che lo hanno fondato e che gli fanno dire "io sono..." in un modo o piuttosto in un altro.

Insomma è possibile orientarsi e lavorare per liberarsi dalle influenze esterne ma questo lavoro è un lavoro di discernimento che risulta lungo, faticoso e mai totalmente definitivo perché di fronte allo specchio anche quando siamo soli, non lo siamo mai completamente.

Dott.ssa V. Ria

Psicologa

In memoria di DLG

Psicologia e dintorni Tutti i diritti riservati
Creato con Webnode
Crea il tuo sito web gratis! Questo sito è stato creato con Webnode. Crea il tuo sito gratuito oggi stesso! Inizia