La colpa del dolore e il dolore vietato

14.09.2018

La colpa del dolore, instillata dalla cultura della produttività e della competizione che sostanzia il mondo occidentale, richiede a tutti di mantenere costante ed inalterata una immagine vittoriosa di imperturbabilità per cui bellezza, ricchezza, capacità e velocità sono diventati valori assoluti che finiscono per schiacciare e colpevolizzare i propri contrari. All'uomo occidentale non è concessa debolezza, dolore, lentezza e riposo. La rincorsa costante ad una perfezione, che in definitiva è solo illusoria, ci ha allontanati dalla percezione dei nostri tempi individuali, dalla possibilità di ammettere a noi stessi per primi, e poi agli altri, che possiamo necessitare di un attimo di pausa, di rallentamento, di respiro. Diventa patologico, oggi, anche solo avvertire dentro di sé dolori che un tempo erano riconosciuti, legittimati e addirittura ritualizzati. Ad esempio, Il lavoro del lutto, inteso nella sua accezione generale, ovvero quel lavoro di assestamento sociopsicofisico conseguente ad una "rottura", è oggi totalmente negato, abolito e ostacolato, ed è questo che innalza esponenzialmente la possibilità che un "lutto" produca effetti estremamente negativi sul benessere psicofisico, perché in sostanza non ci si concede il tempo di far fluire le risposte emotive che alla rottura, al lutto, sono associate.

Quando ero bambina e camminavo nel paesino d'origine di mio padre, un paesino del profondo sud della Puglia, mi ricordo che restavo colpita dalle donne vestite di nero e dalle case che nonostante la canicola estiva restavano perennemente chiuse e recavano davanti ai portoncini un cartello dove in nero su fondo bianco era scritto "lutto". Il lutto era una condizione in cui ci si poteva identificare e che era un "dovere" manifestare, non veniva negato né individualmente, né socialmente, mi ricordo che dalle narrazioni degli adulti emergeva che, come minimo, il lutto bisognava "portarlo", condurlo con sé, per almeno un anno, soprattutto se a morire era stata una persona molto vicina, come un coniuge, un figlio, o un genitore o un fratello. Ricordo che quando magari passavamo in auto con l'autoradio accesa davanti ad una delle case che esibiva quel cartello, mia madre o mio padre abbassavano il volume, oppure, se noi bimbi stavamo facendo baccano ci intimavano di fare silenzio per "rispetto". Il dolore, era ancora qualcosa che, in quei luoghi, di matrice sostanzialmente agricola, veniva non solo riconosciuto, accettato e compreso, ma era anche rispettato. Non risultava fastidioso come una zanzara ma veniva accolto come un processo che andava affrontato, al pari di ogni manifestazione di gioia, e chi lo affrontava era sostenuto da tutti, anche con una radio abbassata nei pressi della sua abitazione.

Anche in quei luoghi oggi la presenza di quei cartelli che "annunciavano" il lutto è sempre più rara e non perché si muoia meno, quanto piuttosto perché il dolore e il lavoro del lutto, che al di là della ritualità, si sostanzia dei tempi di elaborazione individuale, è divenuto un qualcosa da allontanare, perché di ostacolo ai nuovi dettami societari che prevedono un allontanamento dal funzionamento ciclico della terra, fatta di vita, crescita, morte e attesa, e pretendono invece una costante, veloce e incessante produttività che dalle manifestazioni di dolore è ovviamente intralciata. Di conseguenza, non meraviglia se, nella società che non riconosce il dolore e le sue espressioni come parte integrante della vita, il lavoro del lutto è un qualcosa che va come minimo nascosto e se invece viene espresso è sempre più spesso associato a patologia.

Non meraviglia se l'uomo di oggi non è più triste, ma depresso.

Spesso e volentieri dopo una perdita o una rottura, ciò che crea danno non è tanto il lavoro del lutto in sé stesso, quanto piuttosto l'imperativo culturale di negare il dolore ad esso connesso per tornare il più velocemente possibile nel meccanismo della produttività. La teoria psicologica ha evidenziato le fasi, gli esiti sul breve, medio e lungo termine, ciò che facilita o complica il lavoro del lutto, la genesi e la manifestazione degli esiti patologici, ma ciò che in quanto professionista della psiche mi ha sempre colpito è come spesso le persone richiedono un sostegno psicologico in momenti di lutto, non tanto per adattarsi alla perdita, quanto piuttosto per ricevere una sorta di permesso al vivere emotivamente il dolore associato, a concedersi le manifestazioni comportamentali di quel dolore, finanche riuscire a versare delle lacrime.

Viviamo in una società che impone di negare il dolore con l'illusione di dominarlo ma con l'unico risultato di cristallizzarlo e renderlo a quel punto realmente patologizzante.

Dottoressa Valeria Ria

Psicologa

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