Il cambiamento: quando sconosciuto è terrificante
"Ci sono sempre due scelte nella vita: accettare le condizioni in cui viviamo o assumersi la responsabilità di cambiarle" (Denis Waitley)
Entrambe sono scelte apparentemente semplici, entrambe sono scelte apparentemente banali, entrambe hanno conseguenze che possono essere disfunzionali, e spesso e volentieri, anzi il più delle volte, non sono una scelta ma un imperativo che la vita impone.
Quando si pensa alla psicologia e al sostegno psicologico la mente della maggior parte delle persone va alla psicopatologia, al disagio chiaramente manifestato in sintomi che in realtà si mutuano dalla psichiatria; oppure, persone maggiormente illuminate pensano al sostegno psicologico come un qualcosa che riguarda sentimenti e relazioni. Difficilmente si pensa che, in sostanza, la psicologia si occupa di tutte quelle situazioni in cui vogliamo o siamo chiamati, per forza di cose, ad attuare, affrontare e/o gestire, o adattarci ad un qualsiasi cambiamento.
Quando ancora ero una studentessa, mi ricordo che un mio docente disse in aula qualcosa che mi è rimasta dentro:
"Il più delle volte, quando un paziente viene da voi in situazione di disagio, non è per chiedervi di andare avanti, quanto, piuttosto, per chiedervi di tornare in dietro a quella che percepisce come una condizione di benessere ma che di fatto è la condizione da cui è partito il suo disagio, per cui resisterà ad ogni cambiamento."
Questa affermazione del mio docente va a scomodare un concetto che è molto utilizzato in psicologia e poco conosciuto a chi non ha studi specifici, ovvero, la zona di comfort. La zona di comfort è quella zona calda, comoda e rassicurante, la nostra copertina di linus interna, che configuriamo in uno spazio, un tempo e un luogo ben definiti; è quel luogo esterno, ma soprattutto interno, in cui ci sentiamo al sicuro ed in cui sentiamo di poter controllare tutto ciò che avviene intorno e dentro di noi, dove non esistono ansia o stress o timore, ma la percezione che tutto sia dove deve essere senza sforzo, dove c'è disponibilità di nutrimento sia sul piano emotivo e psichico sia su quello materiale. Nella zona di comfort non si sperimentano ansia e paura. Insomma, messa così, è una zona ideale per il ristoro del corpo e della mente, perché è un luogo neutro che non apporta eccessive quote emotive, né in senso positivo né in senso negativo. E allora perché la zona comfort dovrebbe essere un problema? Il problema è che nella zona di comfort non c'è movimento e quindi non c'è spazio per il cambiamento.
Il cambiamento è un qualcosa che non possiamo evitare, o comunque evitare all'infinito, perché è un imperativo biologico e sociale, che però ci spaventa come un orso in una foresta. Il cambiamento, infatti, ci pone nel paradosso di dover apporre modifiche costanti nella nostra vita, anche solo per crescere, e al contempo ci getta nella più totale apprensione perché ogni cambiamento scuote in modi, più o meno forti e/o più o meno profondi, proprio la nostra zona di comfort che è confortante proprio perché immobile, basata sul conosciuto e non certo sull'ignoto su cui invece si basa ogni cambiamento.
Quando spiegano la necessità di uscire o di allenarsi ad oscillare tra la zona di comfort e ciò che vi è fuori, molti autori puntano la lancetta sul discorso dell'apprendimento, ovvero: uscire dalla zona di comfort significa migliorare le proprie prestazioni e la propria produttività e/o apprendere nuovi strumenti per migliorare le performance, in sintesi migliorarsi, acquisire nuove competenze utili. In realtà il discorso non è legato solo all'aspetto produttivo e di apprendimento, ma si estende a tutti i momenti di crescita e a tutte le prove che la vita ci propone, che, come diceva Eriksonn, sono crisi che in quanto tali hanno in sé un potenziale distruttivo ma anche una enorme capacità generativa. La difficoltà di uscire dalla zona di comfort, quindi, si configura, anche, e forse soprattutto, come l'incapacità di accogliere e gestire, in sostanza, ogni tipo di cambiamento che la vita propone e/o impone. Mantenendo il concetto di crisi connesso al cambiamento non è difficile comprendere come Il terrore dell'uscita dalla zona di comfort non è dato tanto dal timore di ciò che si acquisisce ma dal lavoro di "lutto" che necessariamente ogni cambiamento comporta perché acquisire nuovi spazi, nuove competenze, nuovi livelli di crescita, inevitabilmente significa anche rinunciare, eliminare, perdere ciò che prima era lineare, conosciuto, rassicurante, confortante. Ecco perché a mio avviso nella realtà la zona di comfort non esiste ma piuttosto è un ideale interno che inseguiamo e che con ogni nostra fibra cerchiamo di riprodurre nella quotidianità, anche quando diventa zona di comfort qualcosa che in realtà ci fa soffrire, come: un lavoro che non ci piace; una relazione che non funziona; difficoltà familiari e così via. Tutto ciò che ci spinge fuori dalla zona di comfort, intesa come il luogo del conosciuto e del controllabile, quindi, può generare uno stress e risposte correlate più o meno percepite come disfunzionali dal soggetto che le vive, e/o da chi gli è introno, ma che in sostanza, nella maggior parte dei casi, sono espressione di una forte e radicata resistenza al cambiamento, perché in sostanza il cambiamento, inteso come ignoto opposto al conosciuto, fa paura.
Cambiare è terribile perché mentre cambiamo sentiamo anche che stiamo perdendo il controllo su ciò che ci circonda e che stanno crollando pezzi di noi che non riavremo più indietro. Ci risulta difficile pensare che ciò che crolla è in realtà ciò che non ci è più utile, o che stiamo per acquisire nuovi livelli, nuove capacità o nuove potenzialità. Tutto ciò che percepiamo è un terremoto che sgretola i confini e la paura è che non ne sapremmo costruire degli altri. Mentre tutto crolla non sappiamo che il cambiamento fornirà nuovo spazio anche a ciò che era, che magari un pezzetto di ogni maceria potrà essere comunque inglobata nel nuovo, ma sentiamo solo che tutto crolla e allora non immaginiamo il castello che potremmo costruire dalle macerie, quanto, piuttosto, ci aggrappiamo disperatamente alle pareti del nostro monolocale.
La frase di apertura punta l'attenzione sui cambiamenti intenzionali e voluti, quelli in cui esiste una presa di coscienza; magari che la nostra zona comfort è diventata una gabbia dorata, per cui sta a noi scegliere se restarci dentro o uscire, accettandone, in sostanza, le conseguenze: se preferiamo una vita di tranquilla disperazione ma conosciuta e per questo confortevole, oppure, accettiamo la terribile sfida di muovere un passo fuori dal confine del conosciuto.
Il problema però è che, in realtà, spesso e volentieri, e forse per la maggior parte della nostra vita, siamo messi di fronte a situazioni e prove e condizioni in cui il cambiamento è inevitabile e la nostra zona di comfort si mostra in tutta la sua fallacia.
Per chiarire meglio, Senza andare a scomodare autori e teorie che di cambiamento e catastrofe hanno parlato ampiamente, come ad esempio Bion (che appunto sottolinea quanto sostanzialmente a nessuno piace cambiare e che per quanto ci proclamiamo avvezzi al cambiamento, l'ignoto che ogni cambiamento conduce con sé fa paura a tutti, sia che il cambiamento sia voluto, sia che non lo sia, sia che sia un piccolo cambiamento sia che sia un cambiamento di proporzioni vaste), vorrei partire da un film che in queste ore, in cui sono costretta a letto con l'influenza, ho con piacere rivisto ovvero "insideout".
La trama di questo film è per lo più conosciuta a tutti, trattandosi di un film di animazione che ha avuto un enorme successo, anche tra noi addetti ai lavori, e se da un lato i vari orientamenti hanno fatto a gara a scrivere recensioni di ogni genere su quanto fosse, più o meno, valida la teoria della mente che il film propone, in realtà, allargando un poco l'orizzonte, il film mostra, in sostanza, cosa accade quando ci troviamo di fronte ad un cambiamento che non dipende da noi: che non abbiamo voluto, che qualcun altro ha deciso, e che ci chiede necessariamente di ristrutturarci per adattarci alla nuova realtà. Questo film narra delle modifiche interne che stanno avvenendo in una bambina, alla soglia della pubertà, in concomitanza, anche, con il trasferimento di tutta la sua famiglia in un'altra città per motivi di lavoro del padre. Abbiamo quindi: la soglia della pubertà (cambiamento interno/biologico/psicologico inevitabile) e un trasferimento (cambiamento socio/familiare al di fuori del controllo della bambina che non può certo imporre al padre di non cambiare città). Insomma due cambiamenti che apparentemente non hanno nessun potenziale nefasto, eppure, ciò che narra il film è una letterale catastrofe interna che avviene sostanzialmente perché il funzionamento precedente (basato su "gioia") fa una enorme fatica a riconoscere che è giunto il momento di modificarsi e di integrare anche altre emozioni ("tristezza"). Il film parla della crisi e della distruzione interna, ma anche della nuova ristrutturazione quando finalmente "gioia" si rende conto che in quel momento la risposta emotiva della bambina deve tenere conto anche di "tristezza". Quando finalmente, le due emozioni (gioia e tristezza) tornano al quartier generale dove alla bambina erano rimaste solo "paura", "disgusto" e "rabbia", la bambina può finalmente sperimentare anche una emozione nuova: "La malinconia" ovvero quel misto di gioia e tristezza che le permette di addolorarsi per il bello che non ci sarebbe stato più (la connotazione sostanzialmente infantile del suo mondo interno e i ricordi della precedente residenza) perché appartenente ad uno spazio e ad un tempo conclusi. Avuto accesso alla malinconia, la bambina può abbandonare la resistenza al cambiamento (la bambina guidata da paura, disgusto e rabbia, prova a scappare di casa e tornare nella sua vecchia abitazione) e finalmente le emozioni sono tutte libere di fondersi e dar vita ad un mondo interno nuovo, che si basa sul alcuni pezzi del vecchio, ma è finalmente in grado di costruire il nuovo.
Se il film parla di cambiamenti non voluti e non "responsabilmente" ricercati dalla protagonista, in realtà, finisce per spiegare perfettamente la catastrofe interna che avviene in ciascuno di noi quando siamo di fronte ad un qualsiasi cambiamento, anche se lo abbiamo voluto e coscientemente ricercato.
Ebbene, quando la vita ci pone di fronte ad un cambiamento che sia interno o esterno; che sia positivo o negativo; che sia voluto o imposto dallo scorrere degli eventi, sperimentiamo un tale tumulto interiore che ci impone di desiderare di tornare indietro piuttosto che di andare avanti. Che si tratti di lasciare la propria famiglia di origine per sposarsi o di affrontare la morte di una persona cara; che si tratti di cambiare un lavoro perché ne vogliamo un altro che ci compete di più o far fronte ad un licenziamento; che si tratti di uscire da relazioni abusanti o di fidanzarsi per la prima volta; che si tratti dell'arrivo di un bambino o di un trasferimento legato a sfratto, insomma, di qualsiasi tipo e origine sia il segno del cambiamento, la realtà, è che il cambiamento è inevitabile ed ogni volta ci fa percepire un crollo, una perdita, un dolore enormi, ed è questa la fase più delicata in cui possiamo avere risposte disfunzionali che ci possono condurre alla necessità di un percorso.
All'interno del percorso, però, sostanzialmente, e soprattutto all'inizio, andremo a chiedere di ripristinare lo status quo, perché la sofferenza che percepiamo è strettamente collegata al cambiamento stesso e non possiamo percepire ancora che la soluzione, non è resistere al cambiamento, quanto cominciare a modularsi ad esso.
A mio avviso tutto questo è uno dei motivi per cui, al di là dei pregiudizi sulla professione, noi psicologi siamo una categoria non molto apprezzata, perché mentre il paziente ci chiede di essere riportato in dietro a quel passato che oramai comunque non può ritornare, noi lavoriamo per farlo procedere in avanti, e gli chiediamo anche di implicarsi ed impegnarsi in questo processo, senza offrirgli prescrizioni o pillole che inducano un adattamento magico, ma modulando e attraversando un processo che il paziente, in sostanza rifiuta, ma dal quale non si può sottrarre in prima persona. Proprio questo, a mio avviso, spesso attiva resistenze di ogni genere al percorso che pure si è ricercato, perché cambiare è doloroso e faticoso e mentre il cambiamento avviene non sono chiari i benefici futuri ma prendono il sopravvento: rabbia, disgusto e paura; sentimenti che vengono riversati su tutto e spesso e volentieri proprio sullo psicologo e sul percorso che propone.
Dott.ssa Valeria Ria
Psicologa
